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19/05/2025 16:55
Chamila è stata strangolata e uccisa a mani nude, da Emanuele De Maria, un uomo che stava scontando una condanna per femminicidio, ma che aveva ottenuto il permesso di lavorare all’esterno del carcere. Proprio lì, all'hotel Berna dove Chamila lavorava come barista, avrebbe trovato l’occasione per tornare a colpire. E, secondo gli investigatori, l’avrebbe fatto in modo brutale e calcolato, tra il 9 e l’11 maggio.

I primi esiti dell’autopsia parlano chiaro: la donna, 50 anni, è morta per asfissia da strangolamento. Le coltellate alla gola e ai polsi sarebbero arrivate dopo la morte. Un dettaglio inquietante, che alimenta i dubbi su un possibile “rituale”: quando è stato ritrovato il corpo, nel Parco Nord di Milano, Chamila aveva delle foglie in bocca. Gli inquirenti stanno verificando se ci siano collegamenti con il precedente omicidio commesso da De Maria nel 2016, per capire se ci sia una firma, una modalità ricorrente.

Dopo il primo femminicidio, De Maria era stato ammesso al lavoro esterno. Eppure, qualcosa non ha funzionato. Chamila, raccontano i colleghi, aveva paura. Era minacciata, ricattata e controllata. De Maria sarebbe diventato ossessivo e possessivo, e le avrebbe chiesto soldi minacciando di diffondere video intimi. Una collega ha riferito agli investigatori che Chamila temeva di essere uccisa. Ma nulla di tutto questo, a quanto pare, è mai arrivato sul tavolo del datore di lavoro o degli operatori carcerari.

Ora la Procura indaga. Il pm Francesco De Tommasi, insieme a polizia e carabinieri, vuole capire se ci siano state sottovalutazioni, segnali ignorati, o mancate segnalazioni da parte del carcere o del datore di lavoro. Le relazioni degli psicologi e degli educatori del carcere saranno passate al setaccio.

Nel frattempo, la vicenda ha acceso un acceso dibattito sulla sicurezza del lavoro esterno per i detenuti, soprattutto per chi si è reso responsabile di reati gravi. C’è chi, alla luce dell’ennesimo femminicidio, chiede una stretta.